Una testimonianza conclusiva in ricordo di p. Michele Piccirillo
Solo qualche mese fa sono riuscito finalmente – era da tempo che volevo farlo – a salire di nuovo le pendici del “mio” Monte Nebo e là all’aperto, sulla terrazza battuta dal vento che guarda a ovest e da dove s’intravede il Monte degli Olivi (e, la sera, il riflesso rossastro sulle nubi delle luci di Gerusalemme), mi sono seduto accanto alla sua tomba. “Ciao, Michele”, gli ho detto. E abbiamo chiacchierato ancora, come una volta.
Mi piaceva arrivare a Gerusalemme senza preavviso. Bussavo alla sua cella strapiena di libri, di carte, di reperti di scavo: lui lavorava dando di spalle alla porta. “Sabah-l kher, abuna!”, lo salutavo in arabo. Si voltava appena e di solito, indicandomi il fornelletto elettrico sullo sgabello in angolo, mi diceva: “Fatti il caffè”.
L’avevo conosciuto a metà degli anni Settanta e passai insieme con lui un’intera, memorabile estate nel 1987 fra il Nebo e le città carovaniere della Giordania. È stato uno dei più bei momenti della mia vita, una stagione che non dimenticherò mai: quelle lunghe cene all’aperto, l’acqua fresca della “Ain Musa”, il pane caldo e l’uva sulla mensa, quei meravigliosi tappeti musivi che Michele sapeva far emergere d’incanto dalla sabbia e che poi, spesso, si dovevano coprire di nuovo per preservarli.
In fondo, ci vedevamo di rado. E un po’ dappertutto nel mondo, là dove ci portava la logica dei convegni: a Roma, a Parigi, nel suo paese arrampicato tra i monti del Casertano. Eppure, ogni volta che lo rivedevo mi sembrava che non ci fossimo mai lasciati, che fossimo sempre stati insieme. Accanto a lui, si era sempre a casa. E la casa era là, tra Gerusalemme e il Nebo, dove torno di continuo col pensiero.
Lo ricordo sempre così: col saio spesso impolverato oppure in blue jeans e t-shirt come stava sugli scavi. Di rado in clergyman; una sola volta al Santo Sepolcro, in un mattino di Pasqua, in tutto lo splendore liturgico d’una pianeta d’argento. Ma quel frate dall’espressione sicura e ironica che somigliava un po’ a Mickey Rooney era famoso e tutti lo conoscevano: lo vedevi intrattenersi con qualche vecchio arabo o ridere con un gruppo di ragazzi americani in pellegrinaggio e poi, con la medesima affabilità, conversare con un ufficiale della polizia israeliana, con uno sceicco arabo, con un professore tedesco, con un austero vescovo ortodosso. Parlava correntemente l’inglese, l’ebraico, l’arabo, sempre con il suo orgoglioso accento casertano.
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Per lui non c’era mai differenza tra il lavoro, la preghiera, il gioco, il divertimento, lo studio: era tanto generoso del suo tempo e delle sue energie quanto esigente con gli altri. Ricordo la naturalezza con la quale, senza nemmeno chiedere il mio parere o sondare la mia disponibilità, mi annunziava con la massima naturalezza: “Bisogna fare questo libro. Dev’esser pronto fra un anno”. Non aspettava la risposta: se gli avessi detto di no, non mi avrebbe neppure sentito. E con lui tutto riusciva magicamente facile.
Stavo per scrivere che alla scomparsa di uomini come Michele non ci si rassegna. E sarebbe stata una sciocchezza. Finché è stato fra noi, era normale che ci si vedesse, ci si parlasse, ci si sentisse a distanza di settimane o di mesi: ma ogni volta la sensazione era di esserci visti, parlati, sentiti il giorno prima. Anche adesso fra noi c’è una pausa, non so quanto lunga, che riempio col suo ricordo. Arrivederci, Michele. Salam alech [foto 1].
(Franco Cardini)